Sanità e sicurezza nelle carceri italiane per i detenuti tossicodipendenti e/ alcolisti. Una questione da sempre dibattuta e molto delicata.
«Responsabile Civile» ha voluto analizzare l’adeguatezza del servizio all’interno del carcere romano di Rebibbia con alcuni cenni alla situazione nazionale, assieme al dott. Sandro Libianchi, responsabile medico Unità Operativa della Casa di Reclusione maschile e femminile di Rebibbia, nonché presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.).
Iniziamo con un quadro generale per meglio comprendere i differenti casi di detenzione legati alle sostanze stupefacenti e uso di alcolici e come vengono trattati all’interno del carcere.
La situazione a Roma e in Italia è che almeno la metà delle persone che entrano in carcere ha o ha avuto problemi di alcol o tossicodipendenza. Nel carcere di Rebibbia e in quello delle altre città metropolitane si è arrivati anche al 60-70%. Parliamo di detenzione dovuta al consumo delle sostanze, ma anche dovuta ai reati connessi. Una rapina per procacciarsi i soldi per comprare droga è il caso più tipico. Mentre le persone che appartengono a quest’ultima categoria possono avere problemi o meno legati all’astinenza, nel caso di coloro che entrano per il reato di consumo il problema di astinenza è certo, e questi sono i casi che interessano maggiormente la medicina. Si tratta di persone che devono essere prese in carico con urgenza, se solo consideriamo che prima dell’ingresso in carcere possono passare anche 48 ore di fermo in caserma, questura o tribunale; dunque si tratta di un’astinenza molto pronunciata, in pieno corso. A Rebibbia, come nelle altre carceri italiane, adottiamo terapie sostitutive specifiche: metadone o altri farmaci simili. Questa delle terapie sostitutive con metadone è una conquista recente (da una decina di anni), se solo pensiamo che un tempo si andava avanti con aspirina, valium e farmaci non sostitutivi ma che costituivano solo un temporaneo tamponamento.
Quali problematiche si riscontrano nel trattamento delle differenti tipologie di dipendenza e come vengono formulate le terapie?
Ogni droga ha una terapia specifica e deve essere trattata in modo diverso. Droghe come la cocaina, la chetamina e i mille tipi di amfetamine non danno un’astinenza grave, ma più lieve e più prolungata nel tempo, perciò molto più difficile da curare. Curare una persona dipendente da eroina è meno difficile che curarne una dipendente da cocaina. Oltretutto, molto spesso, i dipendenti da cocaina non lo dicono, per vari motivi (paura di avere altri reati, ignoranza), quindi il loro numero, a Rebibbia e in tutta Italia, è sicuramente sottostimato. La prima selezione avviene all’ingresso in carcere, dove vengono monitorati i primi sintomi e viene chiesto al detenuto di descrivere il suo malessere psicofisico. In base ai riscontri viene formulata una terapia.
Qual è il corso della terapia durante la detenzione?
Il mantenimento della terapia durante la detenzione è una questione molto delicata e problematica. Naturalmente si tratta di terapie che all’inizio sono di tipo molto farmacologico e nei successivi periodi gradualmente meno farmacologiche e sempre più socio-psico-assistenziale, una sorta di dissolvenza incrociata. Ma la parte più difficoltosa, che rischia di vanificare il lavoro fatto in carcere, è quella successiva alla detenzione, l’affidamento alle comunità terapeutiche o ai servizi territoriali. Se questo passaggio avviene bene, cioè con una consegna vera propria di delega della presa in carico, noi abbiamo la minima parte delle ricadute a 2-3 anni. Se invece ciò non avviene abbiamo il massimo della ricaduta e rischio di overdose. Quindi, se durante la detenzione possiamo riscontrare dei problemi generali risolvibili, i veri rischi (le overdoses fatali ad esempio) si trovano all’uscita dal carcere,oppure all’uscita dalle comunità terapeutiche. È dopo l’uscita che c’è l’evento, il decesso per overdose, che vanifica tutto ciò che si è fatto prima. Teniamo presente che quando il tossicodipendente esce ha bisogno di rientrare nel proprio ambiente familiare, non sempre favorevole per la sua salute. Parliamo di quei nuclei familiari in cui più persone fanno uso di alcol e stupefacenti e tendono a perpetuare questi riti al loro interno. Questo è uno dei grossi limiti che favorisce la ricaduta.
Discorso a parte va fatto per l’alcol…
È il primo ‘aggancio’ economico. Costa poco, si trova ovunque. Il binge drinking (l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve, ndr) sta prendendo sempre più piede tra i più giovani (14-16 anni). Oggi l’alcol è una delle principali droghe di innesco. Droga perché se consumato in una certa quantità dà gli stessi effetti di una sostanza stupefacente. Tant’è che la fase di intossicazione acuta da alcol è pressoché indistinguibile da quella di eroina. Stesse reazioni, stessi comportamenti e sintomi.
Quali sono le categorie più a rischio per quanto riguarda l’alcol come droga di innesco.
Nell’ambito di arrestati minorenni, ad esempio, la maggior parte di essi hanno problemi di consumo di alcol e amfetamine. A quell’età, ancora poco note sono l’eroina e la cocaina, ma con quell’innesco sono problemi che possono venire fuori in futuro.
Anche le donne sono molto sensibili agli alcolici, più degli uomini. Quindi anche qui la droga di innesco attacca meglio.
Altra categoria è quella degli stranieri. Prendiamo ad esempio il musulmano che viene in Italia, in Europa, dove, rispetto alla sua cultura, tutto è concesso. È il primo ad andare a consumare alcol nei supermercati per scaldarsi durante l’inverno, dal momento che spesso non ha neanche una casa. Man mano che il tempo passa e non ha di che vivere viene intrappolato nel commercio di stupefacenti, di cui spesso diventa consumatore anche lui. Ed ecco che la droga di innesco ha funzionato. Il soggetto in questione è diventato un politossicodipendente.
Aggiungo che curare in carcere una persona con una cultura totalmente diversa dalla nostra, con un approccio alla vita totalmente fuori dai nostri schemi terapeutici è estremamente complicato. Teniamo presente che spesso quando queste persone escono li aspetta l’espulsione, niente comunità o presa in carico. Significa che ci ricadranno immediatamente nel circolo: prima alcol e poi droga.
Quanti detenuti per tossicodipendenza ci sono a Rebibbia?
La percentuale di detenuti per tossicodipendenza di Rebibbia è lievemente al di sopra delle statistiche nazionali, dove troviamo il 35% su un totale di circa 2200.
Cos’è migliorato e cosa può migliorare nel servizio sanitario e di sicurezza per i tossicodipendenti presente nel carcere di Rebibbia?
È migliorata moltissimo la percezione da parte del personale di polizia e personale penitenziario delle proprietà terapeutiche del metadone e di altri farmaci simili, che essendo farmaci stupefacenti incontravano resistenze di ogni tipo. Frasi del tipo: ‘Tu non porterai mai droga nel mio carcere’ erano all’ordine del giorno, intendendo per droga un farmaco regolarmente registrato dal Ministero della sanità e regolarmente distribuito dal servizio sanitario Nazionale.
Quello che potrebbe migliorare oggi è l’invio in comunità, lavorare affinché diventi meno burocratizzato e più personalizzato. Purtroppo dobbiamo fare i conti con comunità in crisi economica e in calo come presenze. Gli ex detenuti tossicodipendenti sono scarsamente presi in carico dai servizi delle tossicodipendenze (Sert) perché questi ultimi sono allo stremo: non hanno soldi, non hanno personale, non hanno risorse. Questo accade ormai da molti anni. Quindi, la potenzialità di questi anni si è drasticamente ridotta, e ciò si lega a un altro discorso… Si sta facendo molto ricorso a misure alternative non terapeutiche per i tossicodipendenti, che non entrano in carcere e vengono immessi in un circuito extra-carcerario. Ma non è come andare in comunità, dove seguono una terapia: vanno a fare altro (affidamento lavorativo o di altro tipo), ma rimangono consumatori. Questi sono punti che non fanno funzionare bene il sistema.
Ma il problema più difficile da gestire, sia dentro che fuori, rimane quello della comorbilità psichiatrica, cioè la persona che ha disturbi psichiatrici e fa uso di droghe o alcol. Questo è lo zoccolo duro del sistema di presa in carico. È difficilissimo curare queste persone.
Veniamo al personale medico e di sicurezza nel carcere di Rebibbia.
Carenze di personale ce ne sono. Sia di guardia medica, che specialistica e di medicina di base, i tre settori chiave. Ce ne accorgiamo dal sovraccarico lavorativo delle persone che lo fanno, e bisogna tener conto che ciò aumenta il coefficiente di errore (uno dei rischi clinici). Questo vale per qualsiasi professione: medici, infermieri, anche la polizia penitenziaria ha lo stesso problema. Per questi ultimi le carenze di organico non sono altissime, ma ci sono e incidono sulle prestazioni. Esistono delle statistiche importanti sull’incidenza dei suicidi nelle forze di polizia, penitenziaria e non. In questi anni sono aumentati molto. È un lavoro molto duro, complicato.
A proposito di suicidi… È una scelta drammatica che spesso riguarda anche i detenuti tossicodipendenti, a Rebibbia come nelle altre carceri italiane.
La metà delle persone che si suicida nelle carceri italiane ha problemi di alcol o droga. Per prevenire questo problema, esistono protocolli specifici di filtro all’entrata delle persone a rischio. Un sistema che viene utilizzato anche per determinare altre tipologie di soggetti (gli autolesionisti ad esempio).
Come si calcola l’efficacia dei protocolli piuttosto che delle terapie?
In generale, l’efficacia su un sistema (protocolli, terapie etc.) si vede dopo almeno 5 anni. Riscontrarla dopo un anno non ha molto senso.
Un ultimo sguardo sulle stanze di detenzione. Esiste ancora il problema del sovraffollamento? Qual è il livello igienico-sanitario all’interno del carcere?
Quello del sovraffollamento un problema che è stato risolto negli anni. Siamo al 102% (in Italia come a Rebibbia), quindi un discreto affollamento c’è, ma che non raggiunge mai quello drammatico di qualche anno fa, dove si registravano 68.000 detenuti. Per quanto riguarda i detenuti tossicodipendenti, si tende a uniformali per i reparti e a non ghettizzarli, cosicché possano stare in stanze di detenzione da uno, due, cinque, anche dieci unità.
Per quanto riguarda le condizioni igieniche, a Rebibbia il livello è medio-buono. In molte altre strutture siamo su un livello medio-basso.
A cura di Pierpalo De Mejo